CRITICHE

SUSSULTI E ILLUMINAZIONI

Viaggio nella pittura di Angelita Mattioli


1. Se riprendessi tutti i testi che ho scritto per Angelita Mattioli, o almeno le parti e i luoghi più significativi per l'interpretazione del suo percorso poetico, credo che emergerebbe non solo, come è naturale, una storia in divenire, ma anche la passione per la pittura, che cerca di aprire spiragli nei confronti della vita; come se l'arte dominasse e costringesse i ritmi della quotidianità, e l'artista non facesse altro che rimuginare dentro se stessa le mille inflessioni del cuore, i sussulti etici della coscienza, le fantasie dell'immaginazione, le risposte formali tese sovente a velare e disvelare nello stesso tempo il mondo inquieto, che forse è connatura-to all'animo di ognuno di noi e probabilmente governa quello dell'artista. Nelle opere di Angelita, diciamo degli ultimi sei, sette anni, ritroviamo tanto la presenza di una realtà individuale, personale, che traspare, anche là dove l'artista non vorrebbe compiutamente mostrarla, per cui spesso l'immagine viene costruita in una sorta di lotta tra il bisogno di dire e l'opposta necessità interiore di cancellarla o renderla meno leggibile, quanto la presenza di una passione, che si propone attraverso iconografie e tratti specifici, ed emerge e si mani-festa con gli strumenti propri delle procedure espressive, per ritmi, aperture, sobbalzi, a volte voli della mente, che sembrano contradire ogni logica razionale. In questo contesto di contrasti e formidabili contraddizioni, tra ispirazione e professionalità artistica, i colori, si accendono come fossero luci che improvvisa-mente trovano il varco per giungere in superficie dalle profondità dell'animo e della pittura e si rendono leggibili allo sguardo degli altri; allora i segni si fanno lame di luce che illuminano e bisturi che scavano, allora ogni pennellata e ogni traccia divengono volano di un'interna tensione. Tutti gli autori partono probabilmente da un primo tratto, da una linea che rimanda pur a qualcosa di visibile, anche se al suo primo apparire, agli stessi occhi dell'autore, non è ancora chiaramente decifrabile. Poi quel gesto iniziale depositato sulla tela e quel segno-colore trascinano la mano, spingono ad ampliarla composizione appena iniziata, intingono il pennello in certi rossi che hanno l'emozione (non la parvenza) del sangue, in certi gialli o giallo bianchi che hanno il bagliore del lampo che non scende dal cielo verso la terra, ma esce dal profondo e si sprigiona dal' inespresso che è dentro ogni uomo: energie primigenie, a volte, o condizionamenti visivi che nascono dagli studi, dagli amori per certe immagini, da suggestioni più o meno lontane negli studi e nella memoria, dai freni calati nell'animo come macigni dalle consuetudini che tendono a chiudere gli spiragli per rendere più difficile l'apparizione, la verità svelata del momento epifanico. Bagliori, tracce, vibrazioni inattese si presentano e aggallano sulla superficie della tela, si mescolano con fili di acciaio con cui Angelita rinforza la sua costruzione visiva, fili piegati, attorcigliati, incollati al supporto con frammenti di tessuto che si impastano con il colore e aderiscono alla tela, tenuti insieme dalla necessità compositiva. Sull'originario impatto del pennello che scrive emozioni si collocano altri materiali che entrano nel gioco ritmico del gesto pittorico che continua a verga-re forme, figure dello spirito, tracce di verosimiglianza. Una volta usciti, presenti e ben tangibili, vitali come il sangue che coli da una ferita, i segni rimangono nell'opera per ampliarne il significato. Che rinvia tanto al piano narrativo-evocativo, quanto al mondo interiore, dalla felicità alle ferite, dai trasalimenti alle cercate fughe verso spazi impossibili (o possibili solo all'arte). È come un tuffarsi nell'acqua; tutto quel che avevi pensato scompare mentre scendi e, ribaltato il corpo, viene avanti all'improvviso quella luce insperata che ti riconduce in superficie. Sulla superficie del quadro restano tracce di iconografie una sorta di contenitore o di diario autobiografico - in cui è facile intravvede-re oggetti, raffigurazioni di forme anche quotidiane, sovente ben riconoscibili-spesso aggalla soprattutto il corpo femminile, sempre presente e sempre cancellato; stilisticamente, al di là dei termini psicologici, che è sempre meglio evitare, è come se Angelita avesse raccolto le intuizioni di un secolo che ha voluto allontanarsi dall'oggettività del mondo, rivendicando l'altra oggettività, quella meno definibile e tuttavia ugualmente solida che alberga nell'animo. In questa nuova espressività, la pittura si propone attraverso le non-forme dell'emozione. Ma il corpo appare comunque, chiede di uscire, per apparire ed essere nello stesso tempo nascosto e cancellato; la superficie sembra diventare il luogo del-lo scontro tra soggettività incontenibile e verità inquieta che spesso, involontariamente a volte, soffochiamo. Ma l'arte libera; libera e dà forma - forse l'unica possibile - alle pulsioni dell'animo, anche contro la razionalità che potrebbe frenare ogni nostra tensione; l'arte apre fessure, spiragli, scava e porta a gallagli umori pieni di energia e di sofferta attenzione al mondo, che non si vuole mai cancellare dallo sguardo, negare dagli occhi; e in questa visione, la verità ritrova la sua misura, e, anche inavvertitamente, i nuclei espressivi indicano a chi osserva i percorsi che conducono oltre la patina superficiale dell'apparire.

2. Dovevo e volevo descrivere una storia di segni, riportando a galla quel che ho letto le cento e cento volte che ho osservato le tele di Angelita; quello del-la pittrice è un percorso di immagini e di grumi informi, di tracce iconografiche e aggrovigliate tensioni portate in campo da un'espansione di colori, che suggeriscono aspirazioni e incanti, trasgressioni e intatte energie. E per parlare di tutto questo, anche a chi scrive, tocca, a volte, cambiare registro, mutare le for-me e i modi espositivi, cercare nella memoria di precedenti letture e nella storia dell'autrice, quelle riflessioni che consentono di decifrare e rendere chiaro un’intricata matassa di passioni che vogliono trovar voce nel mondo di una pittura, quando Mattioli elabora figure, raccolta in se stessa, mentre lavora in una casa piena di storia (oh!, la meraviglia di uno studio collocato in un'antica abitazione abbandonata) che ci riconduce, con le sue tracce e i suoi sedimenti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, alla quotidianità della vita. Come la pittura, costruita con soprassalti e trasgressioni. Chi conosce la storia pittorica di Angelita Mattioli ricorderà che la sua pittura nasce inizialmente su due contesti espressivi, due percorsi tematici: quello inizia-le, più lineare in una certa misura, mediato attraverso la forza dello stile; l'altro, quello successivo, più maturo e più fantastico, nato attraverso una serie di simboliche riconducono l'osservatore ai percorsi di un'accademia frequentata, agli studi, ma anche, e soprattutto, alle esperienze procedurali. E se inizialmente la verosimiglianza sembra dominare la scena, con immagini che traducono l'incontro con gli oggetti della realtà, successivamente il mondo costruito tende quasi a scomparire: oggetti che sfumano, personaggi che compaiono appena accennati, frammenti di memoria, tracce di iconografie che emergono dallo sguardo di dentro, a volte anche dall'infanzia. In questa evoluzione dal narrato all'evocato, lo stile assume una sua veste, una sua interna riconoscibilità: si prenda esemplificativamente una tela dedicata ad un personaggio del' infanzia [Pinocchio dimenticato, 2006]; l'immagine viene chiaramente dalle letture, ma appare ai nostri occhi come simbolo di una riflessione che va oltre la storia. E la stessa pittura che dà voce alle forme così come appaiono nell'immagine interiore che ognuno ha del mondo, è la pittura che attraverso un simbolo consueto, apre a significati altri, ad altre iconografie, spostale vicende della storia per dare un senso nuovo all'individuale passione per la pittura; e rapidamente, in questa storia di ricerca pittorica, le figure evocate dal vortice dei segni documentano una realtà interiore, che sovrasta e supera ogni racconto; sono ormai icone che tutto coprono e travolgono. Nel giro di pochi anni, la stessa vicenda espressiva che si rivela nel fare, trasporta il bisogno pittorico dalla realtà di un mondo di certezze e di simboli verso un mondo nuovo, che appare nell'inseguire immagini appena accennate, ad un tempo apparizioni e sogni. Mossa inizialmente sul consolidato percorso che viene dalla cultura accademica, Angelita si rivolge verso altri orizzonti, che vengono dagli incontri, dalle relazioni, dagli scambi nelle mostre realizzate. Sarebbe miope spiegare l'evoluzione che questa mostra tende a svelare ai soli esiti del-la ricerca stilistica; lo stile, una crescente affermazione espressionista, una tensione segnica che trasporta l'iconografia fino ai margini dell'astrazione, ancora latente, ma ormai cogente, appaiono come gli strumenti di una notevole mutazione; ma è soprattutto il mondo interiore a svelarsi, a rendersi riconoscibile a mano a mano procede l'operazione liberante della pittura. Tutta la storia dell'ultimo percorso di Mattioli conduce da una parte all'emersione di una sostanziale autobiografia, che di necessità si identifica con la figura femminile, una sorta di continuo e prolungato "Autoritratto", e dall'altra ad una sempre più peculiare innovazione stilistica, che sfugge lentamente all'iconicità, alla verisimiglianza senza tuttavia mai disperderla e allontana il bisogno mimetico di identificare il soggetto con un dato di oggettività. Anche Mattioli, come molti altri autori che hanno le radici espressive nel Ventesimo secolo, appare consapevole del cammino compiuto in forme non razionalmente condizionate; involontariamente e indirettamente la nostra pittrice attraversa l'intera vicenda (artistica) di un secolo e giunge inevitabilmente - inesorabilmente si direbbe - alla rappresentazione di sé, e al superamento dell'iconografia di stampo accademico per dar voce al bisogno di indicare i ritmi interiori: dal-la composizione leggibile delle figure al perdersi delle stesse nei ritmi cromati-ci di una tensione lirica. Né sembri casuale se, in questo percorso, Mattioli trova spinte ulteriori e sostegni espressivi in elementi solo apparentemente occasionali ed esterni; la progressiva consapevolezza di sé e del suo mondo, si manifesta tanto nell'approfondi-mento delle immagini, quanto nella forza di utilizzare immagini e iconografie diverse, da ricondurre all'interno del proprio sottile rovello, fino all'uscita narrativa dall'iconografia. In quest'ambito, uno stimolo viene dalle performances sul tema del Cristo Crocifisso, che Mattioli realizza [Cristo, 2010, performance a Breno] per alcuni anni, dando immagine a episodi e scene rievocative dal sapore teatrale; in quella straordinaria iconografia del dolore, che attraversa tutta la nostra storia artistica, la pittura di Mattioli ritrova costantemente tanto la "storia sacra", la storia appresa nella nostra educazione alla vita, quanto l'individuale trasposizione emblematica delle interne inquietudini: alla ricerca della propria individualità, aiuta l'incontro con il dolore. In quest'operazione di scoperta dell'io, che sembra unire la disposizione del-la mano, educata all'arte, e le tensioni dell'animo, diviene (o è sempre stata?) centrale la figura femminile: e non poteva che essere così. Mettendo sé stessa al centro della scena, Mattioli ha modificato il suo mondo; anche gli oggetti, se e quando rimangono, divengono una parte di noi, una parte staccata ma non lontana, una "cosalità" che si riempie della nostra umanità: come commentare diversamente quello straordinario calice (Il calice, 2007], storia esterna (legata al tema del sacro) e trascrizione interiore, se non riusciamo a inserirla in un per-corso di auto esplorazione e auto scoperta? Difficile giungere ad una sintesi, che tuttavia, ad ogni passo, ci riconduce a quel nesso inestricabile e appassionato che abbiamo tentato di descrivere e individuare. Vita e arte; arte e vita.

3. Sussulti, illuminazioni, tenerezze anche. È come se l'iconografia abbia a lungo costituito una struttura difensiva all'emersione dei bisogni dello spirito, un argine nella costruzione della composizione; argine fragile, variegato, composto e ricomposto, innalzato e disatteso ogni volta, una sorta di emersione segnica appena percepibile nell' esondazione cromatica che viene dall'espandersi dei tratti, tracce di un'emozione che vuole apparire e farsi immagine. L'argine si è fatto sempre più fragile, anche se Mattioli non vuole allontanarsi definitivamente dal principio evocativo dell'iconografia. L'iconografia rimane, persiste nel tumulto dei gesti, della materia, delle cromie, dei grumi, parvenza sotterranea non eliminabile. Mattioli non ha probabilmente più bisogno di quel suo "argine" di contenimento emotivo. Il segno stesso si è fatto quasi più diretto, lineare; guizza e appare tra i grumi e le sovrapposizioni di cromie; come se nel sommergersi della figura in un universo di emozioni, le certezze figurali fossero di continuo sottoposte a revisione e messe a contrasto con 'espandersi irrazionale del tumulto interiore. Abolito il rigore, abolito il racconto, torna a fluire dall'interno verso l'esterno il movimento libero della mano, vero sismografo dei sussurri interiori. Angelita ha superato il bisogno del racconto; la pittura ha liberato la mano. E la pittura diviene canto, tensione espressiva. Appare la felicità del fare pittura, appare la forza dei segni che, partiti dalla figura, si muovono nello spazio della tela per esprimere sensazioni. L'iconografia persiste e riemerge, si fa trascrizione di uno stato d'animo, attingendo alla memoria, al mestiere anche, al mito, a volte: e l'immagine si fa percorso interiore. Si prenda un'immagine come "Il buio contro", 2010 e la si colleghi con "Disquilibrio", 2012: due opere distanti nel tempo e tuttavia appartenenti al medesimo modello creativo. In entrambe le opere, la figura femminile, obliquamente posta nello spazio della rappresenta-zione, sembra lottare contro l'insorgenza di presenze, tracce, gesti, che sembra-no scuoterla. Il bisogno di rappresentare si rivolge non più al racconto ma alla tensione emotiva e si traduce nel contrasto, nella lotta diremmo, tra i segni che definiscono la forma, e i grumi, le macchie, gli impasti che descrivono il caos interiore, quel mondo inquieto dell'animo che diviene espressività e si manifesta nelle tracce pittoriche che circondano (o chiudono) la figura. Assistiamo ad una lotta, al contrasto voluto tra iconografia e materia pulsante che non ha nome, perché è solo il di dentro ad emergere e tracciare i segniche circondano la figura; l'energia interiore diviene tensione espressiva, quella stessa che anima e agita tutta la dimensione stilistica dell'ultima pagina artistica dell'Autrice, L'opera non descrive una storia, ma un mondo di pittura che parla di noi, come se ogni pennellata fosse la verifica indiretta di ciò che siamo, di ciò che vorremmo essere e forse non riusciamo a diventare. Angelita libera (ha già liberato) le figure dalla costrizione narrativa attraverso la forza della pittura; potremmo assumere come immagine un solo particolare, anche il più astratto, dalle recenti tele ed avremmo lo stesso risultato, quella straordinaria lotta tra un mondo di raffigurazioni, che agita e attraversa l'animo di Mattioli, e un mondo di segni che non vuole regole, se non quelle dell'arte, non vuole ubbidire a norme e sovrastrutture: vuole cantare l'individuale passione di una pittrice per un'arte cosi piena di sogni e di magie. Con la raggiunta consapevolezza, si aggiunga, che l'arte ha bisogno solo di sé stessa per interpretare il mondo; e il mondo che attraversiamo è quello che è, passioni e struggimenti; non cambia per volontà, ma esiste e si lascia legge-re per la forza del canto libero, che rende meno difficile affrontare le tensioni della vita.

Mauro Corradini

INGOMBRI E SLANCI


Un tempo - il tempo dell'Accademia, del Canone, del Modello -, dire figura era dire corpo. Ma era un problema estetico, rappresentare il corpo: ora è un problema di verità, nella urgente, anche narcisistica necessità di dimostrare la propria esistenza, il proprio ineludibile ingombro d'anima-carne-sangue, vincendo l'orrore di essere anonimi, manipolabili e intercambiabili, sotto il dominio delle biotecnologie e delle realtà virtuali. Il corpo è tornato a farsi l'ossessione di questi anni, in arte. Ma non è, quasi mai, un ritorno di canoni accademici. E' piuttosto una rivolta contro il puritanesimo dell'arte astratta, concettuale e minimalista, che qualcuno ha letto come anestetica, nella sua passione formale assoluta, perchè avrebbe esorcizzato passione, eros, dolore, malattia, morte.

Angelita Mattioli sa che in realtà nella nostra esperienza e nel nostro immaginario quotidiani si è imposta una nuova centralità del corpo, ma di un corpo-superficie, un corpo-schermo che non scaturisce da un rapporto diretto, fisico e sensoriale, con la realtà immediata. Lei ha scelto di riallacciarsi all'energia ed all'immediatezza tipiche della pittura espressionista, che nascendo nella sferzata del segno e nel grido del colore ha convogliato in un fiume tumultuante tutte le inquietudini dell'ultimo secolo, in accensioni vivide e discordanti, in una tendenza dell'arte che è stata anche uno stile di vita, ardente e sensuale, lirico e visionario. Forse Angelita Mattioli vuole persino schizzare pittura fuori da se stessa, di certo vuole fare una pittura che dia conto di come si è, come si guarda, come si vive.

Il suo ciclo precedente di lavori era dedicato alla danza, anche in vere performances di pittura istantanea, in presa diretta coi movimenti delle danzatrici e con i ritmi della musica, cercando di far ardere insieme sia il corpo che la luce nel fuoco del gesto e del colore, già come passione per l'autenticità dell'esperienza (non a caso un altro, ancor più antecedente ciclo dell'artista era intitolato a "Tutti uguali", a scuotere le rinsecchite e anonime figure-marionette, fossili di un'antica fioritura, con tratti mobili, guizzanti, nervosamente frementi), vedendo la bellezza non più come canone o armonia pacificante, quanto come rappresentazione più intensa dello stupore, della felicità e del dolore del mondo. Dunque, l'interazione di ritmi e colori che tenta di creare una spazialità tutta respirante, pulsante, partecipe di un'energia cosmica.

Fatti i conti con quel risveglio dal torpore che l'ha fatta precipitare danzando nel vivo fulgore della vita, nel fremito dell'aria, tra attori d'uno spettacolo primordiale e magico, l'artista si è trovata a rimeditare sul controllo della propria gestualità, sulla forma - oltre la ginnastica scenica - da dare all'impulso vitalistico. E su quel patimento dei giorni e delle convenzioni che si dispone come colla vischiosa, indelebile intorno ai corpi.

Nel ciclo della danza i profili si facevano più sciolti e affilati nel "pensiero musicale", nella festa visiva, nella seduzione e nell'irretimento: qui le forme tornano più accidentate e contorte, la materia più sfatta, densa e grondante, i profili talora fortemente marcati, a cercare il corto circuito dell'emozione e del desiderio nella sintesi violenta tra corpi aperti e inarcati nell'offerta - le mani che annaspano, raspano, s'appigliano, sempre più rastremate ad artigliare la vita -, e viceversa soggiogati da un'indolenza inerte, succube e paurosa, o assorti in un cupo ardore di forza trattenuta.

L'artista è sempre più mossa da una fede carnale e sensoriale nell'umano, dalla ricerca di un'incarnazione di semplicità - e verità - primordiale, che ha raccolto anche la lezione dell'informale, come tentativo di attingere alle radici più primordiali, estreme e viscerali dell'esistenza. Ma, in cerca di un'animazione interna, di un'energia arcaica (fatta scorrere "sotto" la superficie, come un fiume carsico di colore-calore) lotta più strenuamente con l'organizzazione formale che lei stessa si costruisce come una sorta di percorso a ostacoli, in coaguli, ispessimenti, grumi e incrostazioni non solo della pittura, ma di "accidenti" estranei come gessi e stracci accartocciati, corde sfilacciate che interpellano, inquisiscono quasi i flussi gestuali del segno e del colore, di dirompente carica liberatoria, in una fisicità densa, dove si mischiano tensioni, contorsioni e succhi della carne e dell'anima con secrezioni più malate, agre e beffarde.

Angelita Mattioli echeggia in questo nuovo ciclo, nell'impeto, certo clima molto diffuso nei decenni scorsi - fra transavanguardisti italiani e neoselvaggi tedeschi - di dirompente, anche violenta figurazione corsiva, con rimandi all'espressionismo storico e all'informale, ma lo mette in frizione con istanze altrettanto coeve (e mai del tutto disgiunte) dei cosiddetti "nuovi ordinatori" tendenti a una monumentalità solenne, ad una sorta di fissità ipnotica e dolente, con riferimenti al "ritorno all'ordine" ed alla classicità degli anni Venti e Trenta. Nell'apparente inconciliabilità, trova un fondo comune nell'andare all'essenza delle figure e delle emozioni, interpretata come uno sforzo per divincolarsi dalla tela come da uno spazio che si stringe addosso, soffocante.

Ecco la donna che tenta di respingere il buio che le cala addosso come una prigione, ecco la donna che sogna ad occhi chiusi in attesa di incendiare il mondo con la sua forza generante, eruttata dal suo ventre, capace di liberare il segno e il colore in una esaltata innocenza, energica e sensuale. Così incarna il senso dell'esistenza come corso rapinoso, che alcuni vorrebbero pietrificare, e dal quale altri si farebbero rapire.

Il tema resta al fondo quello della liberazione della Donna-Terra genitrice, fatta prototipo del dono e della continuità della vita, che aspira a un canto pieno e fluente, in frizione con un simbolismo più cupo e allucinato. Da qui anche l'attuale ricondurre la pittura più fluente e gestuale al mistero d'una carnalità dolente e affaticata, in cui pur si concentra, tra germinazione e corruzione, il grembo della vita. Sottopelle, sulla tela, si avvertono reticoli di linfe vitali e di materie sensuali: involucri da cui pare sgusciar fuori la natura femminile, che nello stesso tempo si rintana nel mistero dell'eros.

La ricerca di Angelita Mattioli a questo punto ha risolto la questione della pittura più o meno figurativa, superata in questo suo costante bisogno di scompaginare la forma per ritrovarla in una vischiosità vitale e allucinata, nella perenne germinazione e corruzione nel grembo della vita. I volumi si dilatano per riempirsi di sferzate di segno-colore, e si alimentano come colate di lava e grumi vulcanici a un magma ora spento ora incandescente.

Adesso la sfida davanti all'artista è quella di fare in modo che l'inclinazione espressionistica la faccia sprofondare nella materia come dentro la coscienza, e dentro il colore come nella forma più pura degli elementi naturali, come se attingesse ad acqua, aria, terra, fuoco. La vita in tutta l'adesione aspra, spasmodica, erotica, lirica, e nella sua trasposizione mitica, nelle figure che sognano di liberarsi in una visionarietà affocata. Ma già intanto ci dice che l'ardore della vita può essere raccontato controllando, accidentando l'espansione-contrazione della materia colorata, che è come un tessuto spugnoso, che tutto filtra - slanci e spasmi, fratture e ferite, segnature livide e urticanti - in una maglia sbrindellata.

Fausto Lorenzi

LO SPECCHIO E LA PITTURA

Gussago, Febbraio 2016


Nella storia dell'arte, la compresenza di specchio e pittura o, più spesso, la rappresentazione dello specchio in opere di pittura, è una dimensione diffusa; rinvia, probabilmente, a molte situazioni, sostanzialmente riconducibili alla presenza "virtuale" dell'oggetto specchiato che, in apparenza, duplica l'oggetto. La contemporaneità, con i suoi voli, ha aggiunto la riflessione, più inquietante, su una nuova virtualità che si declina, nell'opera pittorica, con l'altra "virtualità" costituita dalla pittura: c'è un oggetto, reale, che vedo (vaso, finestra, figura, paesaggio); c'è una virtualità (la mia rappresentazione su tela); c'è sulla tela un'ulteriore virtualità costituita dallo specchio che riflette e capovolge l'oggetto rappresentato (Magritte, in quest'ambito, ha prodotto più di un'opera). Il percorso espositivo di Angelita Mattioli nella chiesa di Breno, Specchio delle mie brame, 2016, ripropone, in forme diverse, la coabitazione di pittura (una serie di ritratti), specchio e una catasta di scarpette di ceramica, recuperate da un precedente e assai diverso evento. Anche in questa mostra, lo specchio di Angelita ha la duplice funzione e aiuta a far slittare l'impianto complessivo dell'esposizione: ciò che vedrà il visitatore non è solo una "mostra di pittura", ma è sostanzialmente una "installazione" opera più complessa per sua natura, visto che si adatta all'ambiente e si pone in dialogo con quello. L'installazione è costituita da una serie di "ritratti" di uguale formato appesi alle pareti; da una serie di ritratti della stessa dimensione distribuiti nello spazio della chiesa, ma collocati su una struttura portante uno specchio con la medesima base; infine, posto alla fine del percorso, da un accumulo di ceramiche riproducenti scarpe femminili, e proposto nella duplice dimensione della visione diretta e della visione attraverso uno specchio; la complessa installazione, nella sua articolazione, vuole coinvolgere in forme diverse colui che "entra" nell'opera. Il visitatore, entrato nella chiesa, spazio espositivo particolare ed emotivamente coinvolgente, a mano a mano si accosta ad uno dei tanti ritratti esposti,' "appare" in uno dei tanti specchi. Quando giunge al contatto ravvicinato con l'opera, il suo corpo, il suo e il visitatore si riconosce, ma, in questa iniziale e volutamente contraddittoria esperienza, non ritrova il proprio volto. Il visitatore si ritrova solo fino all'altezza dello specchio (140 cm). Sopra, a concludere la figura, la pittrice ha già predisposto un volto, che sostituisce quello reale. In una certa misura, Angelita sembra attualizzare e commentare la cultura del volto; né si scordi - e come faremmo? - che il volto è la parte del corpo che ci restituisce nell'immagine quel che siamo nei documenti d'identità. Anche se siamo consapevoli che il volto non riflette esaurientemente la nostra identità, il volto è ciò che cerchiamo accostandoci ad uno specchio. Spesso non ci riconosciamo in alcune tracce, più o meno pesanti, che la storia ci "dipinge" sull'epidermide; per questo, tentiamo di modificarla, facendoci la barba tutte le mattine o lasciandola crescere; tentiamo di arricchire lo sguardo con segni che circoscrivono l'occhio o con colori che definiscono, al femminile, le nostre labbra; ma il volto, alla fine, è l'immagine della nostra identità. L'epidermide e il volto sono gli aspetti che ci connotano, importanti, da occultare O evidenziare. Nell'installazione di Mattioli, vediamo il nostro corpo, per come lo presentiamo, coni vestiti che abbiamo scelto; ma il viso che vediamo o nel quale ci siamo imbattuti casualmente, muovendoci nello spazio dell'installazione, lo ha già scelto l'Autrice. Ci può piacere o non piacere, ci attrae o lo respingiamo, ma è così. Questa "sequenza di volti", attraverso cui, nel volgere breve di pochissimo tempo, possiamo apparire, non ci appartiene; è solo un prestito temporaneo che ci affascina o Ci inquieta. Cosa vuole da me, Angelita? E da tutti noi che ci muoviamo nel percorso di questa installazione? Forse vuole troppo o non vuole nulla; forse vuole attrarci perché alla fine ci concentriamo sul volto che ha dipinto; forse vuole raffigurare solo sé stessa attraverso mille volti, prendendo a prestito mille corpi; consapevole che alla fine rimane sempre quell'intrigo un po' contorto di pensieri, quei tratti ritratti, quei percorsi interiori che danno ad ogni istante la stessa immagine e un'immagine diversa. Noi siamo il volto che presentiamo; ma siamo anche il mutevole volto che, conosciamo. Uno, nessuno, centomila, ha detto Qualcuno qualche tempo fa; ma ci sentiamo più spesso nessuno che centomila. Siamo il volto del risveglio del mattino, ma siamo anche il volto con un'epidermide più liscia, più levigata, che riusciamo a ottenere, dopo la toeletta; e forse 'inquietudine consiste nel fatto che non sappiamo mai, bene, bene, bene, fino infondo, chi siamo, o se riusciamo ad essere quel che vorremmo; le inquietudini suscitano domande: " verrà la morte e avrà i tuoi occhi (...) Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio", scrive Pavese, in una celebre poesia, una sorta di confessione allo specchio, diventato quello dell'anima. L'installazione di Angelita si propone dunque come una "macchina" complessa che si muove su piani diversi, non solo espositivi: l'installazione ci accoglie come una sequenza di soggetti, silenziosi e tuttavia dialoganti, figure costruite, come sono, con un corpo assente e con un volto dipinto, tavolette alte 40 cm e larghe 30 cm, realizzate ad olio, stilisticamente segnate da una notevole tensione espressiva. Queste strutture composte da specchio e tavoletta, sono disposte nello spazio di quest'antica chiesa, che ricordiamo per la presenza degli affreschi di Romanino; gli specchi e i volti creano una folla, distribuita nello spazio; figure a metà quindi, con un volto definito con uno specchio in attesa di colui che gli darà corpo. Alle pareti, a completare e rendere più complessa l'intera installazione, l'autrice ha collocato una serie di ritratti, non dissimili da quelli posati sugli specchi, ma in questo caso appesi, senza corpo, ricondotti alla sola pittura e presentati per quel che sono, tavole dipinte. In queste, Angelita Mattioli si muove sui percorsi di un'espressività che è specifica della sua pittura. Seguiamo il suo percorso da anni, e spesso abbiamo sottolineato una ricerca espressiva sempre più accentuata; giunta, in questi "ritratti" ai limiti di un informale non cercato, ma ritrovato nella tensione emotiva del gesto che traccia e cancella le fisionomie. Come se la pittura, nella procedura utilizzata, avesse il sopravvento sul bisogno di dare riconoscibilità. Nello specifico, il non-finito che sembra dare e paradossalmente togliere forma a questi volti, diviene in realtà un input per il nostro sguardo, un modo di comunicare come sfuggente la presenza del volto. A volte il volto appare delineato nella sua compiutezza; sovente, il volto è appena leggibile, come se il modello volesse sottrarsi all'apparire; ma non solo ritrosia, bensì cancellazione, dissoluzione, stravolgimento. I volti, tutti e sempre femminili, una costante nella pittura di Angelita, ci aiutano a comprendere una sentita emozione, che tende a proporsi e negare nello stesso tempo; come se ogni parola fosse gridata e spenta, come se ogni gesto fosse bloccato nell'attimo in cui esplode il suo movimento tenerezza e violenza, apertura e chiusura, contrasti della quotidianità. Un percorso, quello di Angelita, che non vuole sicuramente darci risposte - è già molto se e quando l'arte ci lancia domande ci porta ad indagare su quelle riflessioni che la stessa autrice ha posto come introduzione a questa complessa installazione. Che non è conclusa a questo punto. Alla fine del percorso sul pavimento della chiesa, posto in leggera salita, il visitatore, dopo essersi misurato con un sé stesso, teso per la presenza appena letta nello specchio, dopo essersi misurato con i volti appesi, che si propongono per quel che sono, pura pittura espressionista, si trova di fronte ad un ulteriore richiamo che aiuta a completare l'installazione. Alla sommità di questa "platea" animata da figure, un nuovo specchio rimanda al visitatore immagini di forme plastiche accatastate: sono scarpette. Si tratta di ceramiche, già utilizzate in una diversa installazione dall'Autrice. Il nuovo specchio porta in campo un nuovo messaggio, costituito da un'immagine che comunica disordine e fragilità. La catasta appare nella sua confusione accresciuta dal rispecchiamento; alla quantità occasionale delle scarpette si aggiunge la molteplicità dei punti di vista: la catasta in primo piano, la sua immagine capovolta dallo specchio, il punto di vista, variabile. del visitatore, la fragilità della ceramica. Tutto sembra incanalare la riflessione verso il senso del caduco e del non finito. Tanti anni fa si è parlato di "opera aperta" ad indicare la complessità e molteplicità dei messaggi che ogni opera contiene. Il silenzio dei volti dipinti, il disordine delle scarpette accatastate, l'energia di una pittura che si misura sulla forza di un gesto che rispetta e sconvolge le regole del dipingere, sembrano consegnarci parole non dette; come se tutto (la vita, anche?) fosse uno scorrere insensato e senza scopo, un apparire che si consuma nel breve volgere di un attimo che appare a chi lo percorre, un sogno sempre diverso e sempre uguale.

Mauro Corradini

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[...] Ma l'arte libera; libera e dà forma - forse l'unica possibile - alle pulsioni dell'animo, anche contro la razionalità che potrebbe frenare ogni nostra tensione. [...]

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